VAN GOGH

Cinque anni di lavoro per portare alla luce, dopo il frustrante isolamento artistico legato all’emergenza Covid-19, la mostra più attesa dell’anno che ha come protagonista una vera e propria icona dell’arte figurativa, Van Gogh. In vita, il pittore olandese non avrebbe mai potuto immaginare che la fortuna e riconoscimento planetario alla sua figura, postumo alla sua morte, fossero legati all’amore di due donne che seppero coltivare e capire la profondità delle sue tele attraverso il dolore, la maggior parte del quale espresso nelle lettere al fratello Theo. Se la prima fu proprio la vedova di questi, Johanna, che fu in grado di tessere, filo dopo filo, l’itinerario introspettivo di Vincent diffondendo le opere del cognato anche all’estero e pubblicando due terzi del prezioso epistolario prima di morire, la seconda, Helene, riuscì a comprendere istintivamente lo spessore dell’artista acquisendo, fin dal 1908, una infinita serie di opere, lettere, disegni e documenti, che andarono a formare una delle collezioni più importanti al mondo, contenuta al Kröller-Müller Museum di Otterlo. Ed è proprio per VAN GOGH, l’esposizione curata da Maria Teresa Benedetti e Francesca Villanti e prodotta da Arthemisia, che ha da poco aperto a Palazzo Bonaparte di Roma e sarà visitabile fino al 26 marzo 2023, che la direzione del Museo olandese ha deciso di concedere alcune delle sue opere più suggestive e meno conosciute. Una vetrina delle meraviglie che, in ogni luogo deputato, ripercorre a tappe la carriera artistica di Van Gogh ma prima ancora la sua vita interiore, cosparsa della sofferenza di un malato che apprezza la semplicità, la Natura, il pennello come valvola di sfogo del suo tormentato Io. Ad anticipare la mostra, vi è un bel ritratto documentaristico di Helene Kröller-Müller ed una stanza dedicata ad alcuni capolavori della collezione, con dipinti di Lucas Cranach il Vecchio, Henri Fantin-Latour, Pierre-Auguste Renoir, Floris Verster, Paul Gauguin e Pablo Picasso.

“Van Gogh – ha affermato la Benedetti nel suo discorso di illustrazione sulla mostra – da vivo è stato trascurato e non amato. Quando entrava in un luogo si sentiva come un cane dal pelo ispido e per quanto riuscì ad amare tanto, non fu compreso affatto durante la sua esistenza. La sua fu una situazione legata ad una drammaticità esistenziale e di salute, per quanto possiamo asserire che la malattia in qualche modo lo seppe nutrire e gli fornì l’energia necessaria per alimentare una tecnica del colore inconfondibile”.

E proprio dal colore triste della terra e delle persone che la lavorano – il seminatore, la raccoglitrice, il boscaiolo, le donne intente a mansioni domestiche o a trasportare a fatica sacchi di carbone – inaugura l’esposizione: un inno all’umiltà, ben espresso nei quadri del primo periodo, che esalta la partecipazione ad una vita collettiva. Lo stesso Bacon – ricorda la Benedetti – gli volle rendere omaggio: in lui si rivedeva per l’espressione di una souffrance che diventava pathos universale sulla condizione dell’umanità repressa.

Il percorso espositivo si dipana poi sul suo soggiorno parigino, che fortemente lo influenzò nell’uso del colore, ispirato agli impressionisti e dalla loro luminosità, che riuscì a filtrare in una moltitudine di possibilità espressive: le nature morte dominate da ricchi accostamenti cromatici ne sono un esempio.

A seguire, il percorso arlesiano, che, nel ritrovato contatto con la natura, lo rende libero nella creazione di forme e colori suggeriti dalla terra provenzale e nelle quali protagonista è una campagna dalla realtà significante e fonte di espressione gioiosa, poiché primordiale.

L’ultima sezione della mostra è quella invece che maggiormente espone il suo pensiero critico sulla tela, nel corso dell’avanzamento della sua malattia e dei suoi ripensamenti cromatici. Una filosofia dello spirito che fuoriesce nella pennellata, tanto moderna e innovativa, quanto frutto di una follia e depressione interiore.

Se quindi, viene rispettato un rigore cronologico nel viaggio delle cinquanta opere esposte, d’altro canto non possiamo non notare la straordinaria comunicatività pedagogica di aver accostato, ad ogni dipinto, una didascalia critica associata all’epistolario, che meglio ci fa soffermare sull’opera aiutandoci a contestualizzarla. Oltre ai pannelli introduttivi, ben sintetizzati, all’ingresso delle sale (la mostra è strutturata sui due piani del palazzo), lo sguardo del visitatore può godere al centro di ogni spazio di un gioco cromatico di luci e proiezioni su elementi di arredo, fino ad immergersi in una sala di specchi, luci e colori vangoghiani per una coinvolgente esperienza multisensoriale, o apprendere estetica e funzioni del Colore tramite schede interattive disposte alle pareti, efficace operazione di edu-tainment multigenerazionale. E, dulcis in fundo, una sezione ludica che rende omaggio all’immagine pop che il mondo ha voluto trasmettere, facendola confluire in un vero e proprio “immaginario collettivo” del quotidiano: la “VAN GOGH MANIA”, sezione curata da Costantino d’Orazio, presenta una selezione di oggetti dal design  più diversificato che hanno sfruttato le immagini dei suoi quadri più conosciuti per trasformarli in complementi d’arredo, materiale scolastico, gioco infantile, di abbigliamento e quant’altro, come a dire che Vincent – che non trovò in vita il dovuto e rispettoso affetto – resta comunque sempre presente.

Tra le opere esposte – una scelta ben calibrata in cui spicca l’autoritratto di recente restauro del 1887 – ognuna mostra l’intensità della scelta, creazione ed espressione del soggetto, dai “Pini al tramonto”  a “L’amante (ritratto del sottotenente Milliet”, dal “Vecchio disperato” al “Burrone” ma, su tutte, ad emergere, sono sicuramente i ritratti della “sua” gente: quei tessitori, zappatori, minatori, cucitrici, uomini curvi che soffrono in silenzio colti nella lunghe passeggiate nei campi o nell’atto del lavoro più duro: tra le tele maggiormente suggestive, a nostro avviso, ci sono “I mangiatori di patate”, “La contadina che raccoglie frumento” e “L’uomo che avvolge il filato”.

Una ricerca di assoluto che trasmette inquietudine e allo stesso tempo serenità d’animo, tanto disorientata e affascinata dalla pittura e dai suoi potenziali soggetti era l’anima straziata e affamata di affetto di Vincent Van Gogh.