SCINTILLE

È in corso all’Accademia di Francia a Roma, la mostra annuale dei Borsisti di Villa Medici, 16 “pensionnaires” che, nel corso di un’intera stagione hanno sviluppato progettualità inerenti alle loro specifiche competenze. Si tratta di professionisti che attraverso questa esposizione, mettono a frutto le proprie idee e la propria creatività con messaggi rivolti ai visitatori e interrogativi sul senso di certe argomentazioni. Non a caso la mostra si intitola “Étincelles”, ovverosia “scintille”, come quelle che scaturiscono da incontri o scontri tra persone, aldilà di ogni isolazionismo e questo lavoro di gruppo, per dodici mesi, è stato sicuramente frutto di una condivisione artistica partecipativa che ha portato a collaborare più artisti, nel corso dell’anno, su vari progetti, dentro e fuori Villa Medici, senza annullare ma anzi consolidando la propria personalità professionale. A guidarli e a coordinare le loro opere negli spazi espositivi della Villa in un itinerario decisamente originale è stato Saverio Verini, già curatore de “La nuit blanche” con la quale ogni anno i nuovi pensionnaires arrivati presentano le loro specifiche attività.
Una mostra in cui Roma fa capolino e nelle quali vengono ben espresse le relazioni tra la città e le singole sensibilità e che propone un percorso in cui diverse realtà del territorio sono state sviluppate in diverse tipologie, offrendo indicazioni più dirette o subliminali sulla comunicazione generata da ogni lavoro. Una esposizione, al tempo stesso, divisa in microsezioni con luoghi che rappresentano delle accumulazioni di dettagli e materiali o riflessi simbolici di un concetto mentale dell’artista.
Le “scintille” artistiche che illuminano il visitatore sono frutto di una evoluzione espressa con cognizione soggettiva e che vedono l’opera parlare, con provocazione o sperimentazione, al posto dell’artista, ma che sicuramente sanno ben trasmetterci il suo pensiero, più o meno condivisibile a seconda della propria esperienza socio-culturale.

La prima sala, entrando a sinistra, induce immediatamente ad un’immersione totale in cui suono, partiture e disegni realizzati da Hector Parra, anche autore delle musiche, si ispirano ad alcune opere museali e al testo pasoliniano “Orgia”. “Sono catalano ma parigino di adozione – afferma Parra – e avevo da 15 anni il sogno di realizzare un’opera da questo scritto. Così ho deciso di studiare a fondo il testo e allo stesso tempo visitare tutti i musei che potevo, al fine di trovare una “lingua del corpo” che potesse emergere attraverso il disegno di molte sculture appartenenti al XIII-XIV secolo. Mi sono ispirato a dei modelli romani di bronzo e marmo, cercando di trovare, disegnando io stesso, un gesto che a primo acchitto potesse ispirare una partitura musicale. Sono andato insomma alla ricerca dei gesti che potessero cristallizzare la musica che componevo. E quanto vedete in mostra è solo un preambolo della mia futura opera “Orgia””.
Più avanti, in un cunicolo sotto una loggia la scrittrice Kaouther Adimi è uscita dal suo campo per cercare una visualizzazione e formalizzazione di alcune delle atmosfere che sono parte del suo nuovo libro, “Au vent mauvais”, in uscita a settembre. L’argomento è “Versailles”, che fa riferimento a un episodio non molto conosciuto legato alla II guerra mondiale in Francia. “La mia installazione – afferma – non è in realtà molto “versaillese” nello spirito, quanto piuttosto evoca la ricostruzione di una vecchia caserma vissuta dai soldati africani durante la guerra. Con molta paglia scatole di archivio e carta ho cercato di rendere in immagine un pezzo di quella storia e di consentire al visitatore di interrogarsi sulla Storia, sia quella intesa come massimo sistema, sia sulle piccole storie che la compongono. Parte di questi frammenti li ho poi riadattati per realizzare un testo teatrale in collaborazione con altri due borsisti, Hector Parra, che ne ha composto la musica e Guy Regis jr, che lo ha diretto.”

Ed è proprio Régis a “dirigere” le azioni visive nello spazio successivo, la cisterna, già di per sé carico di suggestioni, nel quale ha ideato un’installazione video con una colonna sonora molto forte che fa quasi vibrare le viscere all’ascolto e che ha a che fare con una ricerca più ampia che occupa Guy da tempo: la violenza come componente inevitabile dei rapporti tra gli esseri umani.
Nel primo grande salone espositivo frontale di Villa Medici protagonista assoluto è Charlie Aubry. “Così vanno le cose” è il titolo di un lavoro che rappresenta in qualche modo una traduzione del contesto dello studio che l’artista ha abitato per un anno. Ci si trova infatti davanti ad un’accumulazione di oggetti e di incontri di un vissuto che si attivano e dialogano anche in modo aleatorio. Inserendo delle bilie in un percorso costruito con vari materiali si accendono le luci, una radio e degli altri oggetti in un dinamismo creativo e funzionale, benché semicasuale. E non è un caso che il titolo faccia riferimento a questo elemento fatalista. Il lavoro è sicuramente animato da un’estetica del “fai da te” ma vede convivere in simbiosi una parte artigianale e una sezione tecnicamente sofisticata, frutto dell’utilizzo del software “Arduino”, senza dimenticare riferimenti ironici che rimandano alla Villa, come il pavone costruito con un’aspirapolvere e dei cartoni colorati.

Marta Gentilucci, unica italiana (umbra) fra i sedici pensionnaires, si è cimentata in un intervento installativo che è giusto un estratto di una grande opera che è stata mostrata in prima assoluta ai prestigiosi “Rencontres de la photographie” d’Arles lo scorso 4 luglio. In collaborazione con la fotografa americana Susan Mezedas, le sue ”Cartografie del corpo” qui mostrate prendono spunto dal gesto ossessivo di una signora anziana, ripresa di seguito per un’ora a disegnare spirali, per riflettere sul tema del diventare vecchi che, al contrario della sua emblematicità negativa, può far trasparire azioni ricche di grande creatività e bellezza. Le mani di Lucia che ripetono il gesto in maniera ossessiva, rappresentano un processo positivo intrinseco di una persona che ripete quotidianamente la stessa azione per sentirsi viva. L’installazione è integrata dall’acustica di una composizione sonora ideata e realizzata dalla stessa Gentilini.
La visita dei luoghi d’arte in questo anno è stata fondamentale nello sviluppo progettuale di ogni borsista. In particolare, per Noemie Goddard è stato l’incipit di una ricerca che ha investigato sull’interiore e l’interiorità. Un’inchiesta che propone di farci riflettere sulla modalità e funzione di certi spazi in cui viviamo, da piccoli elementi a grandi architetture sperimentali in relazione alla nostra spiritualità e senso interiore. In una teca sono esposti dei “libri matrici” che offrono spunti di vario tipo sul rapporto tra spazio interiore ed esteriore, dall’arte alla filosofia e antropologia, attraverso la presentazione di immagini schedate di vari luoghi d’arte italiani. Più in dettaglio la teca successiva propone immagini corrispondenti semiologicamente per la struttura e forma alla bipartitura “dentro/fuori”, infine, alla parete, è appesa una tela che descrive un’immagine catturata da un luogo etrusco in cui è ben espresso il concetto di specchio è specularità, che trascina lo sguardo verso un’analisi con se stesso, in un’interpretazione assolutamente personalizzata dell’Io.
Accedendo al maestoso corridoio espositivo in salita, entriamo in una dimensione del paesaggio in cui convivono, in forma astratta o tecnica, elementi terrestri, atmosferici e liquidi.

Il primo artista a scatenare una multipercezione del punto di vista visivo è Benoit Mairie, che propone, in tre differenti tele, un ripensamento della pittura e di alcune tradizioni della storia della pittura. Le sue nuvole, ad esempio, che compaiono in maniera ripetitiva, si ergono a ponte mediano tra figurazione e astrazione, in continuo cambiamento. La sua arte cita al contempo il concetto architettonico degli artisti italiani cosiddetti “primitivi”, maestri della prospettiva intuitiva, ma diventa più sperimentale con l’uso in parti di bombole spray e mani realizzate con retino serigrafico, producendo quindi una vera e propria “scintilla” tra arte classica e tecniche contemporanee.

La traslazione del linguaggio è alla base del lavoro di Marielle Macé, che ha deciso di dare un corpo diverso alla scrittura espressa nella pagina di un libro ispirandosi ad un suo saggio sulla respirazione. In pratica, con l’aiuto del grafico Francesco Arniti, ha cercato di evidenziare il sentimento dell’irrespirabilità del tempo e dell’habitat intossicato in cui sono prigionieri gli esseri umani nella società attuale. La tossicità si nasconde dietro il testo che invece cerca di sollevare altre parole come possibile via di fuga respiratoria. “Non abbiamo bisogno di respirare tutta questa aria intossicata – afferma – ma di presenze ed esistenze che ci possano fornire ossigeno, e quindi vita. Dando il giusto valore alla parola potremmo parlare e scrivere in un altro modo del mondo cercando, proprio con le proprie verità, di disintossicare l’atmosfera”. Questa idea, continua, le è venuta dopo che molte volte le era stato fatto notare che parlava con estrema dolcezza, troppa forse, e quindi ha pensato di nasconderla in fondo alla lingua per farla andare a cercare e cogliere in luoghi altri e lontani.
Mathieu Peyroulet Ghilini sviluppa, sulla parete, un itinerario ricavato dal linguaggio delle forme utilizzando assi numerici in varie dimensioni. Una scala, realizzata con grafica tridimensionale, si poggia sul muro sotto a una serie di disegni composti in materia seriale. Il “gioco”, guardandole in successione, è quello di comprendere che, all’apparenza diverse, queste immagini fanno tutte parti di un unico insieme.

“Un altro cammino” è l’imponente opera realizzata da Ivàn Argote, colombiano di origine, che esprime bene il concetto di passaggio e di ponte come elemento spirituale. Una grande massa di cemento color chewing gum, ai lati della quale sono inseriti elementi vegetali trovati nei giardini della Villa, evoca il dialogo tra natura e progresso in cui l’uomo, calpestando il percorso, si interroga. Il visitatore può infatti, camminando, leggere frasi – “Possiamo ancora farci domande? Possiamo parlare? Possiamo tenerci per mano? Possiamo muovere le cose e farle girare?” – e soffermarsi sulla necessità di porsi in ogni momento dell’esistenza dei quesiti per essere in grado di trovare nuove mete nel proprio cammino.

Dal luogo mentale a quello fisico: la successiva proposta, a cura di Théodora Barat, si sofferma sul paesaggio urbano e periferico della Capitale, interesse derivato dal suo amore per i luoghi raccontati da Federico Fellini in molti suoi film. “Nei vari sopralluoghi che ho effettuato in vari quartieri di Roma – racconta – ho trovato un’assoluta forma di ispirazione, cercando di stabilire una relazione tra l’architettura industriale e la qualità scultorea di certi elementi. Ho indagato su luoghi precari e inabitati della periferia romana cercando, esplorandone la passata o presente funzionalità, di riattualizzarli impiantando nella stessa area delle maxi sculture con uno sguardo puntato anche al cambiamento nel tempo dello stesso luogo ritratto”. La sua “scultura documentaria”, filtrata dagli elementi preesistenti del paesaggio architettonico – da costruzioni fasciste del Littorio a frammenti di centrali nucleari – viene espressa in mostra attraverso dei video che riprendono l’opera montata nel suo contesto urbano e dai singoli materiali che l’hanno composta, smontati nelle parti, quali fossero attori recitanti nella messinscena mostrata nell’audiovisivo.
Aude Faurel inizia la terza sezione della mostra proponendo una serie di filmati legati alla resistenza palestinese e curda nei quali si innesta e sovrappone la figura di una regista contemporanea, la tedesca Monica Maurer, che la filmò in prima linea a Beirut tra il 1976 e il 1982. “Sono venuta a Roma con l’idea di realizzare un lungometraggio utilizzando dei frammenti audiovisivi inediti e ho trovato questi eccezionali materiali conservati presso l’AAMOD Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico. Me li aveva suggeriti proprio Monica che durante la pandemia avevo avuto modo di conoscere solo virtualmente. Quando ci siamo incontrate ho avuto modo anche di consultare il suo archivio personale, che ho iniziato a catalogare. Ho chiesto poi ad un amico rifugiato politico, Jaide Auzel, di incarnare per questo lavoro un personaggio mitologico. Iniziando a lavorare su molte sequenze che non erano state montate e utilizzate – argomento di ulteriore riflessione – ho ricostruito un percorso storico nel quale ho visto emozionarsi ed immedesimarsi Jaide a tal punto che poi ho scoperto che molti luoghi filmati erano a fianco del suo villaggio di origine. Ho voluto rendere questo racconto visivo con un confronto tra passato e presente che permetta di sviluppare un pensiero critico sulla lotta ai curdi, Lo stesso linguaggio dell’installazione a tre schermi evidenzia degli aspetti diversi del racconto.

Di fronte alla piccola cripta degli audiovisivi, il pubblico troverà una serie di fascicoli da poter portare via: è l’opera realizzata da Julie Pellegrin, una pubblicazione corposa con una lunga intervista ad una figura chiave della storia recente legata a Roma: Fabio Sargentini. Fondatore della galleria L’Attico, nella cui sede Kounellis espose alla fine degli anni Sessanta i suoi “Cavalli” – Sargentini parla del suo “ginnasio artistico” e della ginnastica mentale espressa in più occasioni, oltre che della ricerca di spazi non convenzionali che gli hanno permesso di esprimere “altro” dal concetto dell’arte attuale. In pratica, la sua “rivoluzionarietà” protesa a modificare il sistema dell’arte e la cognizione percettiva di essa, è assimilabile al concetto di performance creativa, sul quale ha a lungo indagato la borsista nelle sue pubblicazioni ed esperienze precedenti. La pubblicazione è impreziosita da una carrellata di fotografie d’epoca provenienti dallo stesso archivio de “L’attico”.

Anomalo e curioso al contempo, è l’esperimento compiuto invece da Samir Boumediene, che ha concentrato la sua ricerca su un motivo iconografico pressoché noto: la verità messa a nudo dal tempo. In questo caso ha cercato e trovato delle corrispondenze tra il tema proposta e la fermentazione degli alimenti, un processo che ne rivela la natura e le proprietà proprio attraverso il passare del tempo. “Ho lavorato su un argomento molto presente in scienza, letteratura ed arte, la cosiddetta “scoperta dell’America” che narra che la verità è figlia del tempo. In questo caso ho deciso di affrontare una variazione culinaria, dal momento che la cottura e la fermentazione sono processi rivelatori dell’essenza degli alimenti, della verità dei sapori svelando il loro “terroir”, cioè i microorganismi che danno un gusto particolare alle pietanze, Così ho pensato di far vedere in un’immagine un limone fermentato, la cosiddetta “mano di Buddha”, inserito nella fessura della Bocca della verità per stimolare, come da leggenda, la reazione della Bocca. A livello pratico ho inserito in due contenitori dal liquido diverso, più o meno fermentato, lo stesso limone ed ho visto differenti reazioni, frutto del cambiamento del tempo nello stesso processo. Esattamente come “La Bocca della verità”, il tempo divora tutte le cose e a differenza de “La scoperta dell’America” alla quali si attribuisce sempre un autore, la fermentazione non ce l’ha perché il tempo reagisce in maniera diversa e oggettiva alle cose e viceversa”.

Il dialogo tra passato e presente continua con la regista Evangelia Kranioti, di origine greca, che ha fatto riprodurre delle teste di gesso dalle statue dei giardini medicei della Villa per farle trasportare dai migranti, filmandone il percorso, in tragitti della Roma notturna. I contesti silenziosi e fantasma delle rotaie sotto ai cavalcavia della tangenziale sono il luogo perfetto per descrivere atmosfere tetre che ben legano le erme scultoree – “Hermes” è il protettore dei viandanti – ai migranti, in un percorso che parte dalla mitologia per arrivare a trattare tematiche contemporanee di estrema attualità. “Ho cercato di fondere due lavori che ero in procinto di realizzare – spiega Evangelia – un film di finzione su Hermes e un documentario sui migranti, utilizzando le teste dei busti disposti ai carrefour della Villa e mettendole in mano a delle persone extracomunitarie che ho filmato. Un tentativo di aprire un dialogo tra l’antica Grecia, l’Africa e l’Impero romano che ho tentato di esporre identificando i migranti come messaggeri del tempo attuale che camminano portando un peso in una Roma semideserta, col sottofondo di una musica barocca, il “Giulio Cesare d’Egitto”. Lo ritengo un confronto tra l’effimero dell’arte e l’eterno di questa affascinante città”.
L’ultima opera in esposizione è quella di Nidhal Chamekh, riferita ad un personaggio francese dalla grande storia, Jean-Baptiste Colbert, che incise molto sulla politica del tempo e fu iniziatore del cosiddetto “code noir”, la legge secondo la quale si stabiliva un riconoscimento legale della schiavitù nei possedimenti francesi d’Oltreoceano. L’artista, per criticare e porre un’ombra sulle sue “gesta”, ne ha riprodotto un calco da un busto conservato in Villa e vi ha fatto colare un liquido nero, proprio a scuotere questo “immaginario positivo” sulla sua figura. Di fronte a questo video in loop ha poi installato una libreria con saggi sul colonialismo francese, una sorta di impalcatura teorica del suo pensiero progressista e aperto alla convivenza paritaria degli esseri umani.

“Ètincelles” chiuderà il 7 agosto: un’occasione di confronto e riflessione sull’arte e sul pensiero di questi creativi cittadini del mondo artistico, che a settembre lasceranno spazio ai nuovi pensionnaires. Villa Medici li aspetta.

Elisabetta Castiglioni