Arriva nelle sale un capolavoro di voci, suoni e immagini che non può non essere visto, goduto, apprezzato e riveduto, ogni volta per analizzarne qualche nuova impagabile informazione. Sì, lasciateci dire “capolavoro”, e non solo sull’onda di una sentita esperienza emotiva. Dal 17 febbraio vi esortiamo dunque a tornare in presenza al cinema per immergervi nel film-documentario che, secondo noi, segnerà semanticamente un frammento di storia della cultura e stimolerà le nuove generazioni di cineasti e compositori. “Ennio” di Giuseppe Tornatore, co-produzione internazionale distribuita in Italia da Lucky Red, è il lavoro che il regista Premio Oscar ha messo a punto sul due volte Premio Oscar Ennio Morricone. Un’autentica sinfonia filmica, costruita non a caso sul modello di una vera e propria partitura orchestrale, quella concepita in molti anni di ricerca per archivi, con testimonianze e documenti difficilmente rintracciabili, e soprattutto con il filtro portante di una lunga auto-intervista all’assoluto protagonista del film. Nessun altro avrebbe potuto concepire una tessitura simile, non solo perché Tornatore ha lavorato per 25 anni con il Maestro, dedicandogli già qualche tempo fa anche un saggio (“Morricone. Un Maestro”, ed Harper Collins) ma perché era uno dei suoi amici più curiosi con il quale Morricone condivideva importanti parti del suo tempo libero (risicatissimo), tra concerti di musica “assoluta” e conversazioni a tutto tondo; una sorta di alter ego di questo “mito”, considerato tra i compositori e arrangiatori più geniali di sempre, ma anche personaggio temuto, introverso e ritenuto da molti tra i più ostici con cui lavorare, forse proprio perché talento innato e professionista tout court.
Mi era capitato l’anno scorso di intervistare a tale proposito decine di orchestrali che, negli studi di registrazione da lui fondati nel 1969 insieme a Bacalov, Piccioni e Trovajoli, gli Ortophonic (oggi Forum Studios), avevano interpretato e inciso le sue partiture; dai loro racconti, ne era emerso uno “Stakanov” di primo livello che aveva deciso di “covare” la propria creatività in un doppio ambiente: lo studio-casa e la casa-studio. All’unanimità ne si evidenziava l’impressionante, se non unica, sensibilità intuitiva nel catturare e legare insieme suoni e immagini nel discorso narrativo e stilistico di un film. L’analisi delle sue doti intrinseche, della costante determinazione allo studio e all’ascolto, oltre che alla sempreverde voglia di apprendimento, viene espressa ora al meglio in questo autentico gioiello filmico, meditato a lungo e edificato intorno al racconto in prima persona dello stesso Morricone. Un film particolare per come si evolve nelle varie chiavi di lettura “ad incrocio” – cronologia, tematica, dialogo contrappuntistico e sincretico tra immagine e suono – e per un montaggio serrato che esalta non solo il credo degli illustri testimoni intervistati (la lista è lunghissima e in grado di soddisfare ogni contesto e area geografica e generazionale) ma il pensiero recondito di Morricone che – attenzione! – forse alla fine della sua carriera si è ricreduto sul valore della musica da film fino quasi a considerarla effettivamente (secondo un aneddoto ivi raccontato da un altro Premio Oscar, Nicola Piovani) come la nuova musica contemporanea.
In questo itinerario articolatissimo, lungo oltre due ore e mezza (che comunque ci sembrano poche e perché non considerare una serie doc in più puntate?), emerge in forma accentuata anche un altro elemento, oltre al ritratto del musicista: un tratto che pochissimi conoscono, quello dell’uomo. Ce ne accorgiamo dai primi fotogrammi nei quali, allo scandire del metronomo, corrispondono gli esercizi ginnici sul tappeto della propria casa che il Maestro quotidianamente praticava per tenersi in forma. Un Morricone “umano”, mai visto prima e colto non solo nel suo acume mnemonico (le sue storie, che siano riferite all’infanzia o alla lavorazione di uno degli oltre 500 film da lui realizzati, sono sempre chiare e ricche di aneddoti) ma nel suo elemento di grande spirito ed elasticità mentale. Gli è complice un’ironia (anche autoironia) che in molti casi gli ha fornito un combustibile indispensabile per aggirare o affrontare gli ostacoli o occasioni perdute – tra queste il suo Maestro Goffredo Petrassi che non vedeva di buon occhio la sua attività compositiva per il cinema o la direzione della RCA che, avendolo in esclusiva, gli negò di scrivere la colonna sonora de “La Bibbia” di John Huston, o ancora l’Academy Awards che in più occasioni lo candidò per gli Oscar ma lo lasciò a bocca asciutta, fino poi a “scusarsi” per questo con l’assegnazione degli Oscar alla carriera e a “The Hateful Eight”…
Se pensate di assistere a un classico documentario siete però fuori rotta perché a parlare in prima persona, oltre a chi ne ha condiviso il lavoro, l’esperienza e gli insegnamenti, è anche la Storia stessa, quello di uno spaccato dell’Italia che si affaccia al mondo attraverso la sua eccellenza professionale. Una operazione funzionale e strategica sulla Memoria che si rivela con un ritmo calcolato e velocissimo di sequenze fotografiche e rari filmati reperiti davvero da chissà quanti archivi, a svelare momenti pubblici e privati che lo hanno sfiorato o circondato: dai backstage sul set (attimi incredibili, ad esempio, quelli vissuti in “C’era una volta in America” dove gli attori recitavano con la sua musica suonata dagli altoparlanti in sottofondo) al suo lavoro in sala di registrazione con l’orchestra, alle ospitate nei programmi televisivi del decennio Cinquanta/Sessanta in cui rivoluzionò il concetto di arrangiamento; e ancora i premi, le interviste e perfino straordinari excursus negli anni giovanili (colpisce lo scatto del teen-ager Ennio trombista), all’interno di quel Conservatorio, Santa Cecilia, che ne forgiò la tempra allontanandolo progressivamente da un mestiere per consentirgli di trasformarlo in autentica Arte, pur sempre conservando nella sua mente una dialettica tra sacro e profano con cui combatteva regolarmente.
Nel silenzio del discorso diretto e nell’intenzione di una pura atmosfera evocativa, Tornatore inserisce abilmente, oltre al perseverante viaggio motivazionale nella musica compiuto e cresciuto di anno in anno, anche la coloratura descrittiva di un altro motore: gli affetti. Le lacrime che traspaiono sul viso di Ennio Morricone in certe inquadrature, provocate dall’emozione di certi ricordi, sono rivolte a pochissimi, ma in particolare al suo grande amore, la co-protagonista (insieme alla musica) della propria esistenza: il “deus ex machina” Maria, compagna fin dagli studi accademici e consigliera fruttifera di ogni sua scelta musicale. La donna che gli ha fatto amare (ma non confessare di amare) la melodia tramite un giudizio istintivo sui temi, ha sempre dimostrato di possedere un ascolto raffinato e democratico ed è sempre rimasta dietro le quinte, anche in questo caso (la scelta registica di non intervistare né lei né i figli è, a nostro avviso, vincente). Esisteva poi un’altra passione affettiva del Maestro, gli scacchi (scoperti per caso in gioventù da una rivista in edicola e mai abbandonati), che in questo contesto appaiono e scompaiono simbolicamente nei primissimi piani sulle partiture (ci sembra quasi di vedere associata ogni battuta sul pentagramma al movimento di una pedina sulla scacchiera): un ulteriore carburante a scoppio continuo che ha guidato la ratio compositiva di Morricone e che nel lungometraggio si palesa apertamente solo in alcuni segmenti – tra questi la suggestiva testimonianza dell’amico Terrence Malick che ricorda le giocate vincenti del Maestro al telefono, con una mano sulla cornetta e l’altra sulla bacchetta.
Così come Ennio Morricone aveva chiara la scrittura delle sue composizioni già nella sua testa, prima ancora di approcciarsi ad uno strumento, la stesura di questo memorial possiamo supporre sia stata già ampiamente premeditata da Giuseppe Tornatore – che qui ha deciso di comparire in pochissimi istanti – prima della sua effettiva realizzazione. Conoscere il Morricone più intimo è stata la chiave di volta per orientare non solo certe scelte stilistiche – primissimi piani e inquadrature dall’alto – ma per armonizzare il passato e il presente in una qualitativa fusione di linguaggi espressivi, dai cinegiornali dell’Istituto Luce alle foto di famiglia, dai fotogrammi di pellicole introvabili alle rarissime sequenze in studio. L’ascolto del regista è stato minuzioso e con le antenne se pensiamo che ogni affermazione da lui proferita è stata amplificata ed estesa narrativamente in panorami sonori e visuali di vario effetto, sentimentale e cognitivo. Alcuni dei quali possono non a torto essere considerati delle vere e proprie lezioni di storia della musica e del cinema: pensiamo ad esempio al modo in cui lo sguardo del regista si inserisce con introspezione tecnica, a partire da un aneddoto raccontato, nell’analisi audio-visiva della colonna sonora di “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” di Elio Petri.
Ma il documentario va assaporato soggettivamente e può esserlo non solo come exemplum cine-didattico, ma per un “ritrovarsi” e ritrovare pezzi di un immaginario sonoro che ha permeato (e continua ad assorbire) il subconscio emotivo di diverse generazioni. Un exemplum dove ognuno, indistintamente, ascoltando i ricordi di discografici, cantanti, musicisti, registi, copisti, tecnici del suono e decine di altri professionisti che compaiono in quest’opera può personalizzarne e incanalarne in modo empatico o scientifico le sfumature cromatiche, i messaggi filosofici e i brividi di energia positiva che ne traspaiono.