Un “Mercante di Monologhi” che si cimenta, intercalando il presente storico con uno dei testi più emblematici di Dario Fo, nel tentativo di far comprendere al pubblico multitecnologico e poco letterario di oggi, un pastiche linguistico, elaborato ma diretto, escogitato proprio dal Premio Nobel per caratterizzare il contesto del suo teatro performativo, il grammelot. Così Matthias Martelli, giovane attore già pluripremiato ma che negli anni dell’exploit di Fo non era ancora nato, porta in scena al Teatro Parioli di Roma il celeberrimo “Mistero Buffo”, scritto nel 1969. Potrebbe essere considerato un osare oltrelimite, quello di restituire alla luce, fisicamente e linguisticamente, uno dei capolavori che segnarono una sorta di rivoluzione nel teatro di narrazione, ma dopo un’ora e mezza di talento e sudore non possiamo che apprezzare ogni qualità (mentale e fisica) di Martelli decretandolo come erede sui generis di Dario Fo, che peraltro conobbe e da cui ebbe il placet di riprenderne il lavoro. Matthias sceglie tre differenti episodi biblici dal testo, quali monologhi delle sue giullarate: in primis “Il miracolo delle nozze di Cana”, che vede un arcangelo e un ubriaco barcamenarsi per raccontare la propria versione della trasposizione di acqua in vino; a seguire “La Resurrezione di Lazzaro”, che descrive il mondo dei questuanti che si ritrovano a trarre profitto o esperienza dal momento miracoloso all’interno di un cimitero e vede le molteplici figure – il custode, il sediarolo, lo scommettitore come anche gli apostoli – parlare con la mimica espressiva e la politonalità vocale di un solo poliedrico cantastorie; infine “Il primo miracolo di Gesù bambino”, ripreso da Fo nei vangeli apocrifi, che vede assurgere “palestina”, cosi soprannominato dai compagnucci di gioco un tantino razzisti, a integrato di rispetto attraverso i suoi naturali e miracolosi poteri. Tutt’intorno la narrazione, scattante e dinamica di un affabulatore nato che riesce nel contempo a raccontare col dono della sintesi pragmatica e caricaturale le vicende bibliche della famiglia divina, dal bambino ai Re Magi, da Giuseppe a Sant’Anna, passando dalla descrizione della Cometa ai ghirigori canori del “negro” magio in trance mistico-musicale. Ma la soglia dell’attenzione, a cui abitua la audience plurigenerazionale accorsa (per fortuna numerosa, visti i tempi), viene rinforzata, oltre che dalla scattante versatilità vocale multitimbrica e cinetica poliprossemica, dalla strategia di servirsi di immagini di quadri proiettate, per anticipare – spiegando – il contesto e i personaggi di cui andrà a trattare, e da un andirivieni a sprazzi (senza esagerare) di rimandi alla politica di oggi, quale forse linea di continuità con Fo, analogo artefice di raffinate allusioni e satira subliminale.
Senza trucco e senza inganno, ma con la capacità percettiva e fisica di trascinare la platea all’interno dell’azione drammatica, anzi catapultandola in un mondo di lazzi e poesie comunque non arrugginite dal cambiamento sociale, Martelli – guidato alla regia da Eugenio Allegri – coinvolge e convince senza eccedere, semmai sottraendosi con semplicità alla tentazione dell’interpretazione autoriferita ma seguendo una traiettoria che prima di tutto vuole spiegare che cos’è il testo, cosa lo spettacolo e cosa le azioni che si vedranno in esso, suggerendo ma anche cristallizzando la sua grandezza in una naturale qualità di personalizzazione del “gesto-parola” forgiata da un dettagliato studio metodico e vorace istinto di apprendimento.
Nonostante la corazza obbligata da mascherina FFP2, abbiamo notato fuoriuscire in continuazione dal pubblico risate e grida di spontanea esilaranza, a riprova della capacità dell’attore di catturare con interlocuzione le corde emotive di un ritrovato (sebbene provato dai recenti isolamenti pandemici della cultura) spettatore.